Inclusione nel mondo del lavoro, chi resta fuori?

“Né simile né uguale”

Maggio è il mese europeo della diversità e il modo migliore per concluderlo è quello di ricordare come essere diversi non sia un difetto, ma farlo diventare un valore richiede un pensiero.

Né simile né uguale. 

Così il vocabolario Treccani definisce la diversità. Non è permesso margine di affinità: solo differenza.

Questo perché il concetto stesso afferma, tramite la sua esistenza, il proprio opposto, al quale non può in qualche modo accostarsi: quello di normalità.

Il termine “diversità” deriva infatti dal latino diversĭtas, traducibile con “allontanarsi da”. Indicando qualcosa o qualcuno come diverso quindi, attraverso l’uso stesso della parola, si stabilisce inevitabilmente anche una distanza.

Ma distanza da cosa? Da una norma: un concetto che in statistica vorrebbe solo rappresentare una maggioranza ma che nella realtà esclude una minoranza, guardata con sospetto proprio per quel suo essere “fuori standard”, “non normale” e forse anche “non sana”.

L’incontro-scontro con la diversità

Perché c’è diffidenza nei confronti delle diversità? 

Le ragioni affondano le radici nei primissimi tempi della nostra storia, quando categorizzare in fretta coloro che avevamo davanti era la chiave per la sopravvivenza: bene o malintenzionati, amici o nemici, noi o loro, simili o diversi… 

L’estraneo era diverso e l’estraneità, in un mondo in cui la vita era molto precaria e appesa alla stabilità del gruppo, era una minaccia: non si aveva il tempo per esplorarla, conoscerla, apprezzarla e riconoscerla. Non si aveva tempo per includerla.

Ma oggi? Abbiamo ancora bisogno di applicare schemi così automatici e veloci per liquidare la diversità come estranea e pericolosa? Cosa guadagniamo e cosa perdiamo con questa diffidenza?

Partiamo da cosa “ci guadagniamo”

Si fa meno sforzo. Chiedere alla persona “diversa” di omologarsi è di certo ben più semplice dell’esplorarla e comprenderla.

Se pensate che sia rara la richiesta di omologazione vi sbagliate. Far sentire le persone inadeguate è più facile che riconoscerle. 

Il riconoscimento è un atto esplicito, comunicare inadeguatezza invece è un atto tanto silenzioso quanto pervasivo, che trova mille forme per manifestarsi.

Ad esempio: 

  • attraverso le barriere architettoniche e strutturali per chi ha delle disabilità (abbiamo fatto la rampa, mica vorrai che si adeguino anche i tasti degli ascensori…), 
  • con i documenti inaccessibili (caspita mi dispiace, ma mica possiamo rendere ascoltabili tutte le brochure aziendali…), 
  • con gli openspace (mi spiace che a causa della tua neurodiversità tu non riesca a tollerare il rumore delle voci, ma per noi il team work è un valore imprescindibile…), 
  • con l’indisponibilità di risorse (le scarpe anti-infortunistiche partono dalla taglia 38 e tu che sei piccolina dovrai adattarti, magari mettiti due calzini …) e così via.
inclusione calzini

Cosa vuol dire includere davvero?

Immaginate di avere due insiemi di elementi diversi e di volerli rapportare l’un l’altro: i modi per farlo sono molteplici e a ognuno di essi corrisponde un diverso livello di coinvolgimento dell’alterità.

Esiste l’esclusione, che è a zero sforzo: tutti gli elementi uguali vengono inclusi in un gruppo chiuso che non contempla un’apertura verso l’esterno, spazio in cui invece viene relegato chi non risponde ai requisiti. 

A quali forme sociali corrispondono? Sono le élite, i cerchi magici, anche organizzativi, in cui si preclude l’accesso e si vorrebbe entrare per il solo fatto di essere, appunto, “gruppi esclusivi”.

Un’altra forma è la segregazione: lasciare fuori ma in un gruppo a sua volta chiuso, così da avere due poli che non si avvicinano, non si toccano né di contaminano. Distanti, appunto, come la definizione di diversità evoca. 

A quali forme organizzative corrispondono? Talvolta sono i progetti di responsabilità sociale, in cui lo scambio è ben circoscritto all’esperienza (la giornata del volontariato, il diversity day, il social team building, ecc.), passata la quale ognuno torna nel suo mondo. Cosa rimane? Nulla, solo sapere che esiste anche “l’altro”, ma è appunto “altro da me”.

Per spiegare l’integrazione usiamo la metafora dell’olio e dell’acqua nella stessa ciotola: le persone che esprimono diversità vengono sì inserite nel gruppo, ma tenute a distanza, separate pur se unite, ma solo in apparenza. I confini sono sociali e relazionali, non fisici. E come per l’olio e l’acqua, la separazione è visibile solo se il contenitore è trasparente.

L’ultima di queste possibilità è l’inclusione, in cui tutti i componenti sono considerati per le loro specificità, senza più noi e voi. Sono i sistemi in cui le persone “non sono tutti uguali ma sono tutte diverse” e c’è un reciproco e arricchente scambio tra le parti, scambio che non crea differenze ma valore.

La strada in questa direzione non è sempre facile. Le aziende hanno spesso dimensioni organizzative e culturali tali per cui la diversità può essere vista come un motivo di crisi. 

Conoscere le diverse abilità, esplorare altri modi di vedere le cose, interrogarsi sull’esperienza anche fisica che si ha del contesto, dei servizi e dei prodotti non sono sempre processi semplici da sviluppare per chi ha standard da perseguire, potrebbero sembrare un inutile dispendio di energie senza un immediato ROI.

Cosa ci perdiamo nel non considerarle un’opportunità?

Perdiamo la possibilità di combinare “i calzini” in modi nuovi e mai uguali, che in termini aziendali significa perdere le infinite risorse e possibilità di creare connessioni tra pensieri e punti di vista diversi e quindi di innovare conoscenze, competenze, processi, metodi prodotti, servizi, relazioni…

Un luogo di lavoro inclusivo si può

Costruire fondamenta solide è il prerequisito perché l’intero edificio possa tenersi in piedi. 

In primo luogo bisogna considerare la D&I un tema trasversale all’azienda e al business e non solo un perimetro delle Risorse Umane.

Inoltre, bisogna riconoscere l’individualità delle persone ascoltandone le esperienze e interrogandole sulle specifiche istanze.

In terzo luogo, lavorare per creare un contesto di sicurezza psicologica in cui le persone possano sentirsi rispettate per le loro peculiarità. 

In ultimo, ma non meno importante, investire in cultura per superare il sentimento della diffidenza e decostruire stereotipi e luoghi comuni che nascono dall’incontro con le diversità.

L’inclusione è un risultato che porta i suoi frutti nel medio periodo, ma non è mai a perdere e, soprattutto, fa bene a tuttə.

Buon mese della diversità!

Giorgia Ortu La Barbera

Consigliera di Fiducia per Rai, Sapienza e Greenpeace
Consulente per la Diversity, Equity & Inclusion | Psicologa e Coach | Attivista