Una domanda molto semplice: la diversità fa notizia?
Secondo il Diversity Media Report 2022, dipende principalmente dalla forma di diversità di cui si parla. Le tre più considerate dai telegiornali sono età, etnia e identità di genere, mentre disabilità e orientamento sessuale sono relegati ai margini dai criteri di notiziabilità, trattati rispettivamente solo nell’1,2% e nello 0,8% dei casi.
D’altra parte, oltre il 72% dei prodotti mediatici analizzati dal report interessa in maniera trasversale più aree di diversità, specialmente le serie internazionali e quelle dedicate ai bambini, che stanno coinvolgendo non solo davanti allo schermo ma anche dietro le quinte, professionisti appartenenti ai gruppi sottorappresentati e affrontano tematiche lasciate ai margini dai media mainstream, come la disabilità o la salute mentale.
Un ruolo molto importante lo giocano i prodotti dedicati ai bambini, indubbiamente sempre più impegnati nell’abbattimento degli stereotipi veicolati tramite linguaggio e immagini.
“Il mondo è bello perché è vario” recita un vecchio detto.
E, in effetti, vario il mondo lo è davvero: ogni persona ha qualcosa che la rende unica e ci sono infinite sfumature e combinazioni di diversità che meritano di essere rappresentate.
Non farlo significa raccontare una realtà parziale se non, addirittura, negare l’esistenza di una o più parti del mondo.
Un esempio? Se i dati sulla rappresentazione delle donne nell’informazione fossero una fotografia fedele della realtà, vivremmo in una società composta solo per il 26% da donne, e non per l’effettivo 51%.
È fondamentale che anche nei media la diversità venga rappresentata in quanto questi raccontano una finestra del nostro mondo e contribuiscono a costituire la rappresentazione che abbiamo della realtà. Non avere visibilità delle diversità ne cancella la presenza.
In secondo luogo perché ogni persona che guarda in questa finestra deve potersi ritrovare, legittimarsi, trovare modelli che le somiglino. Potersi riconoscere significa affermare la propria esistenza.
“Si sta iniziando a dare attenzione alla diversità”, si direbbe nel leggere i dati del Diversity Media Report.
A parlare, però, come spesso accade nel mondo della D&I, non è tanto ciò che c’è, quanto quello che manca: non solo la rappresentazione è circoscritta ad alcuni prodotti, ma viene troppo spesso stereotipata.
E così troviamo personaggi neri che, anche quando non sono i primi a morire, nei film hanno il ruolo di migranti o criminali… oppure persone con disabilità che recitano la parte della vittima o dell’eroe, arrabbiate o coraggiose… o ancora, i personaggi gay che sono artisti, creativi, emotivi.
Uscire dalla stereotipia vuol dire collocare questi personaggi in una normalità di trama e offrire al pubblico narrazioni ben più realistiche, che vadano oltre alle visioni preconfezionate delle diversità.
Parlando invece di donne, una maniera empirica ma a mio avviso molto valida per misurare la presenza femminile in un film o una serie è il test di Bechdel. Per dirsi superato, il prodotto che si prende in esame deve:
Fate una prova: sono davvero pochissimi!
È quindi un ottimo sistema per valutare la disuguaglianza di genere e, secondo alcune statistiche, i prodotti che superano il test di Bechdel hanno incassi maggiori di quelli che non lo fanno.
Ed ecco che la diversità crea valore, ancora!
Rappresentare tutte le diversità in maniera responsabile e corretta è necessario per dare loro la dovuta visibilità.
Fermarsi a riflettere sul modo in cui rappresentare la diversity e sul perché farlo, ripulire il linguaggio con cui ci si riferisce a essa da termini implicitamente o bonariamente discriminatori e parlare di diversità con la libertà che caratterizza ciò che è normale è il primo passo per permettere a ogni persona di ritrovarsi nella realtà anche all’interno dei media.
Perché ci si renda conto di quanto il mondo possa essere vario e, di conseguenza, bello.
– Report Netflix sulla D&I nei suoi prodotti e al proprio interno: https://about.netflix.com/it/inclusion